Ho ancora negli occhi l'immagine di un cronista che intervista il prof. Tredici, responsabile sanitario del Giro d'Italia, mentre sullo sfondo si scorge un lenzuolo bianco steso sull'asfalto, a ricoprire presumibilmente un corpo. Ma è stata la sola immagine, peraltro casuale, dell'incidente del povero Weylandt che è stata trasmessa durante la trasmissione televisiva della Rai, che ogni giorno segue le tappe del Giro.
Eppure di immagini che riprendevano lo svolgersi del tragico incidente che era costata la vita al giovane ciclista belga ce n'erano, ma la regia e tutto lo staff giornalistico della trasmissione, non si sono lasciati tentare dalla voglia di "scoop" che avrebbe sicuramente portato la loro audience alle stelle e si sono limitati a fornire notizie essenziali, anche ritardando la comunicazione dell'avvenuto decesso, per evitare che la moglie del ciclista, ancora ignara dell'accaduto e alla guida della sua auto, ne apprendesse la notizia dalla radio.
La stesso comportamento,
lo stesso composto rispetto si è potuto osservare nella trasmissione del giorno successivo, quando la tappa si è comunque svolta, ma senza una vera gara e dove la corsa ha voluto rappresentare più un solidale corteo funebre che un evento agonistico. Si è parlato dell'arrivo in Italia dei famigliari di Weylandt, della moglie Sophie ed anche in questo caso, le poche immagini trasmesse, sono state accompagnate da un rispettoso silenzio da parte dei conduttori, senza fare commenti, senza indugiare in particolari morbosi, senza interviste senza senso.
Non è poco, abituati come siamo, ad ascoltare interviste che di fronte a dolori strazianti come era appunto quello dei famigliari del corridore deceduto, approcciano gli interessati con domande del tipo: "Cosa si prova in questo momento?"
Insomma finalmente un bell'esempio di televisione, di giornalismo a dimensione umana ed occorre fare un plauso agli artefici di tutto ciò, non a caso, interpreti di uno sport come il ciclismo, forse unico e per nulla assimilabile ad altri della stessa popolarità, uno sport che va a casa del pubblico e che ha come valore fondamentale la fatica dei suoi protagonisti.
Infine un'ultima annotazione sul pubblico, sulla gente che segue il ciclismo ed in particolare su quelli che nella giornata successiva alla tragedia di Weylandt, hanno accompagnato la carovana da Genova a Livorno: niente scritte inneggianti i campioni, niente incitamenti ai singoli, ma solo applausi per tutti e tanti segni di partecipazione al lutto che ha colpito i famigliari, la moglie, gli amici, la squadra del corridore deceduto e tutto il mondo del ciclismo.
Quella scritta sull'asfalto o sui muri della salita di Montenero che recitava: "Ciao Wouter", forse sarà pian piano scolorita e poi cancellata dal tempo, ma rimarrà per sempre scolpita, indelebile, nei nostri cuori.
Eppure di immagini che riprendevano lo svolgersi del tragico incidente che era costata la vita al giovane ciclista belga ce n'erano, ma la regia e tutto lo staff giornalistico della trasmissione, non si sono lasciati tentare dalla voglia di "scoop" che avrebbe sicuramente portato la loro audience alle stelle e si sono limitati a fornire notizie essenziali, anche ritardando la comunicazione dell'avvenuto decesso, per evitare che la moglie del ciclista, ancora ignara dell'accaduto e alla guida della sua auto, ne apprendesse la notizia dalla radio.
La stesso comportamento,
lo stesso composto rispetto si è potuto osservare nella trasmissione del giorno successivo, quando la tappa si è comunque svolta, ma senza una vera gara e dove la corsa ha voluto rappresentare più un solidale corteo funebre che un evento agonistico. Si è parlato dell'arrivo in Italia dei famigliari di Weylandt, della moglie Sophie ed anche in questo caso, le poche immagini trasmesse, sono state accompagnate da un rispettoso silenzio da parte dei conduttori, senza fare commenti, senza indugiare in particolari morbosi, senza interviste senza senso.
Non è poco, abituati come siamo, ad ascoltare interviste che di fronte a dolori strazianti come era appunto quello dei famigliari del corridore deceduto, approcciano gli interessati con domande del tipo: "Cosa si prova in questo momento?"
Insomma finalmente un bell'esempio di televisione, di giornalismo a dimensione umana ed occorre fare un plauso agli artefici di tutto ciò, non a caso, interpreti di uno sport come il ciclismo, forse unico e per nulla assimilabile ad altri della stessa popolarità, uno sport che va a casa del pubblico e che ha come valore fondamentale la fatica dei suoi protagonisti.
Infine un'ultima annotazione sul pubblico, sulla gente che segue il ciclismo ed in particolare su quelli che nella giornata successiva alla tragedia di Weylandt, hanno accompagnato la carovana da Genova a Livorno: niente scritte inneggianti i campioni, niente incitamenti ai singoli, ma solo applausi per tutti e tanti segni di partecipazione al lutto che ha colpito i famigliari, la moglie, gli amici, la squadra del corridore deceduto e tutto il mondo del ciclismo.
Quella scritta sull'asfalto o sui muri della salita di Montenero che recitava: "Ciao Wouter", forse sarà pian piano scolorita e poi cancellata dal tempo, ma rimarrà per sempre scolpita, indelebile, nei nostri cuori.
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